Dicono che le opere compiute determinino la grandezza di un uomo: ma forse, più ancora di quelle, sono le occasioni mancate, i rimpianti e le trasgressioni a definirlo maggiormente...
Con questa full-immersion nella mente e nella sensibilità di Fulvio Tomizza – testimone inestimabile dell’esodo istriano di metà Novecento e scrittore di rara lucidità – non è possibile rimanere indifferenti. I testi qui raccolti sono stati gli ultimi ad essere effettivamente selezionati dall’autore, morto, fin troppo precocemente, nel 1999. Vi si trova di tutto: dai pensieri e le aspirazioni giovanili alle cupe divagazioni della maturità (segnata da un’ostinata chiusura in sé stesso), dalle meditazioni politiche a quelle morali. Di fronte a chi legge si staglia così un monumento al Tomizza uomo a tutto tondo: italofono di ascendenza contadina in un’Istria destinata ad essergli strappata; marito complicato e incostante, ma capace di un amore assoluto quanto disperato; cittadino del mondo, pellegrino intellettuale e avventuriero sentimentale. Insomma, umano, umano, troppo umano...
Fulvio Tomizza (1935-1999) nasce nella contrada di Materada, nel comune istriano di Giurizzani. Cresciuto in mezzo alle tensioni interetniche fra italofoni e slavi, con l’irrompere della Seconda guerra mondiale è costretto a riparare a Trieste con la famiglia. Iscrittosi all’Accademia di Arte Drammatica e alla facoltà di Lettere di Belgrado, nel 1957 esordisce con i primi racconti, cui faranno seguito, di lì a poco, i romanzi della Trilogia Istriana: "Materada" (1960), "La ragazza di Petrovia" (1963) e "Il bosco di acacie" (1966). Ai suoi romanzi, che raccontano la difficile vita degli italiani di frontiera, Tomizza affianca un’originale produzione teatrale ("Vera Verk", "La storia di Bertoldo", "L’idealista") e una serie di testi per l’infanzia ("La pulce in gabbia", "Il gatto Martino"). Nel 1977, col romanzo "La miglior vita", si aggiudica il Premio Strega.